venerdì 31 dicembre 2010

Buon 2011!





Che il botto di mezzanotte porti via ogni
 male per lasciare posto alla salute e alla
 felicità!

lunedì 27 dicembre 2010

La banda dei Babbi Natale - Recensione

Qualche lampo di perfidia e risate ad intermittenza per il ritorno sul grande schermo di Aldo, Giovanni e Giacomo, decisamente più ispirati rispetto al loro precedente lavoro; la storia scorre fluida e senza grossi intoppi grazie ad una sceneggiatura ben strutturata e alla regia diligente di Paolo Genovese, ma con un pizzico di coraggio in più il film avrebbe potuto prendere una piega diversa, forse più 'rivoluzionaria'.


Tempi duri per i buoni se anche uno scalcagnato scansafatiche come Aldo viene scambiato per ladro. La sua unica colpa è quella di essersi introdotto in un'abitazione al terzo piano di un palazzo di Milano, vestito da Santa Claus. Naturalmente, finisce in questura assieme ai suoi compagni di viaggio, Giacomo e Giovanni. Davanti ad Irene Bestetti, infuriato ispettore di polizia, i tre iniziano a raccontare i fatti che li hanno portati fino a lì, un'interminabile sequela di premesse e lunghe spiegazioni, che non fanno altro che allontanare la povera Irene dal tanto agognato cenone in compagnia di marito e figli. Scopriamo quindi che Giacomo è un brillante medico tormentato dal fantasma della moglie, morta dodici anni prima, e che il veterinario Giovanni di mogli ne ha due, una a Milano, dotata di ferocissima madre, l'altra in Svizzera, dotata di ferocissimo padre. E per non farsi mancare niente, ha anche uno scimpanzè, Charles, con cui si diletta a giocare a carte e a bere il caffè. Insieme ad Aldo, scommettitore incallito, cuoco sopraffino, appena cacciato di casa dall'amata fidanzata, i tre formano un'affiatata squadra di bocce, i Charlatans, e un'allegra combriccola di amici. Sono davvero I criminali che hanno svaligiato otto appartamenti in pochi giorni, o più verosimilmente sono dei poveri diavoli che cercano di risolvere i loro problemi in maniera non proprio ortodossa? La risposta dell'ispettore Bestetti è quella che hanno in mente tutti gli uomini di buona volontà.
E' certamente il ritorno alla commedia "pura" la sorpresa più bella de La banda dei Babbi Natale, il film di Paolo Genovese che riporta in auge l'umorismo nazionalpopolar-eversivo di Aldo Baglio,Giovanni Storti e Giacomo Poretti, decisamente più ispirati rispetto al loro precedente lavoro, Il cosmo sul comò. Se può bastare solo questo per definire riuscita la loro proposta natalizia, allora Aldo, Giovanni e Giacomo hanno centrato il bersaglio. Con i pregi e i difetti, infatti, il lavoro del trio propone qualcosa di diverso alle platee delle feste, ritagliandosi un piccolo spazio tra la corazzata del cinepanettone e i kolossal fantasy dedicati ai più piccoli. Non ci troviamo davanti al film comico più innovativo della storia della cinema, anche perché ognuno si tiene ben stretto la sua consueta 'maschera' (Aldo è il guastafeste, Giacomo il perfettino, mentre Giovanni continua ad essere il cattivo che ruba le caramelle ai bambini) e a risentirne sono quei personaggi secondari, valorizzati in piccola parte (Lucia OconeAntonia Liskova e Giorgio Colangeli). Tuttavia la storia scorre fluida e senza grossi intoppi (salvo una certa ripetitività in alcune situazioni) grazie ad una sceneggiatura, scritta dagli stessi protagonisti con la collaborazione di Valerio BarilettiMorgan Bertacca e Giordano Preda, ben strutturata nei suoi andirivieni temporali. 
Anche se sembra perduta la carica che aveva animato le loro prime pellicole, tornano a far capolino quei lampi di perfidia che tanto avevano colpito il pubblico all'epoca diTre uomini e una gamba. In effetti, è nelle gag surreali che il trio dà il meglio di sé, strappando qualche risata in più. E' Giovanni, come detto, ad incarnare lo spirito del Grinch, il veterinario sciupafemmine che ammazza gli animali (il tiro al barboncino è una delle trovate più giuste), che narcotizza la suocera (efficace, ma ingiudicabile Mara Maionchi nei panni di questo cerbero in gonnella) e ribalta il concetto di famiglia felice proprio quando tradizionalmente ci si dovrebbe riunire tutti attorno al focolare domestico. Alla fine il personaggio più "scorretto" di tutti è l'azzeccato ispettore di polizia interpretato dalla bravissima Angela Finocchiaro, e non solo perché dà apertamente del "terrone" ad un collega che riesce a mettersi in malattia nei periodi strategici dell'anno (Natale, Pasqua e Ferragosto), incastrandola puntualmente, ma perché sa sfruttare quella caotica parentesi al commissariato, per porre le basi del cambiamento più radicale della sua vita. Il cinema non presenta spesso figure di brave donne con figli e marito che decidono di ricominciare daccapo, senza struggersi in sensi di colpa. Peccato che questo aspetto non sia stato sviluppato al meglio e sia stato relegato in un sottofinale quasi superfluo nell'andamento della storia, una digressione non necessaria e troppo sdolcinata, stonata in un film che avrebbe potuto prendere una piega diversa, leggermente più 'rivoluzionaria'.


Articolo tratto da movieplayer.it 

lunedì 20 dicembre 2010

Il supermicroscopio che fa nuova luce sulle malattie renali

I reni contengono unità funzionali chiamate glomeruli, ammassi di capillari caratterizzati da pareti perforate da pori attraverso cui vengono eliminate le sostanze tossiche e i prodotti di scarto del sangue. I glomeruli hanno anche la funzione di trattenere molecole utili all’organismo, come le proteine. In condizioni di malattia il rene perde la sua capacità filtrante con la conseguente perdita di proteine rilevabili poi nelle urine (proteinuria). In uno studio condotto dalla Unità di Microscopia Avanzata dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, presso il KilometroRosso di Bergamo, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Journal of American Society of Nephrology (2010 Dec;21(12):2081-9) dal titolo “New imaging of the glomerular epithelial filtration slit by scanning electron microscopy - pores ultrastructure in physiological and proteinuric pathological conditions”, grazie all’impiego di un microscopio elettronico a scansione (SEM) di ultima generazione abbiamo fatto luce su come i pori del filtro renale sono distribuiti in condizioni fisiologiche e patologiche. 
L’analisi di campioni biologici al SEM tradizionale fornisce immagini tridimensionali della superficie del campione con il grosso vantaggio di dare un’idea dell’organizzazione delle strutture molto fedele alla realtà. Le immagini al SEM vengono ottenute grazie a un fascio di elettroni che colpiscono il campione e che vengono poi “rimbalzati” (elettroni secondari) e rilevati da un detector e successivamente convertiti in impulsi elettrici. Questi impulsi vengono infine trasformati in un’immagine topografica. Il campione deve essere ricoperto da un sottile strato di metallo per renderlo conduttivo e per facilitare il ritorno di segnale degli elettroni. 
I SEM tradizionali hanno tuttavia un limite, difatti riescono a rilevare informazioni solo dalle aree più superficiali del campione, mentre gli elettroni che raggiungono le zone più profonde, anche se “rimbalzano” sul campione, vengono persi perché non riescono ad essere intercettati dal detector e con loro vengono perse tutte le informazioni strutturali ad essi associate. Le strutture di nostro interesse, i pori di filtrazione, sono profonde e quindi con questo approccio convenzionale non sono visibili.

Abbiamo superato questo limite utilizzando un SEM di ultima generazione (Cross-Beam Supra con colonna Gemini, Carl Zeiss, Oberkochen, Germania) che ha il grosso vantaggio di utilizzare l’innovativo detector in-lens, posizionato a una distanza molto ravvicinata dal campione che consente di raccogliere con un’altissima efficienza anche gli elettroni più profondi che normalmente vengono persi, fornendo così molte più informazioni rispetto ad un detector convenzionale. La Figura mostra un campione renale osservato al SEM a diversi ingrandimenti. L’unità di filtrazione renale, il glomerulo, che si osserva nel pannello a, è visibile a dettagli sempre più fini passando ad ingrandimenti sempre maggiori (pannelli b e c) fino ad arrivare all’ingrandimento massimo che ci ha consentito di vedere i pori di filtrazione osservabili nel pannello d. 
L’osservazione di queste strutture, mai descritte prima, ci ha spinto a voler investigare come questi pori si distribuiscono lungo la superficie filtrante e a descrivere la loro dimensione sia quando la funzione renale è ottimale sia quando è compromessa. Abbiamo quantificato la dimensione dei pori attraverso un metodo morfometrico utilizzando un programma informatico di analisi di immagini (Image J 1.43). Il dato interessante è stato scoprire in condizioni patologiche associate a proteinuria la comparsa di una popolazione di pori con dimensioni sproporzionatamente più grandi rispetto a quelli osservati in condizione fisiologica. Noi riteniamo che questi pori, eccezionalmente grandi, potrebbero avere un ruolo nel processo patologico permettendo un passaggio anomalo delle proteine che, una volta filtrate, si rilevano poi nelle urine.
Le nostre osservazioni, ottenute grazie ad una tecnologia sofisticata e innovativa, contribuiscono ad aumentare, in maniera consistente, le conoscenze sull’ultrastruttura dei pori di filtrazione, finora solo ipotizzata attraverso studi teorici, suggerendo una visione diversa da quella finora descritta. Questo approccio tecnologico ci ha inoltre permesso di rilevare una differenza nelle dimensioni dei pori in condizione patologica rispetto a quella fisiologica suggerendo che le alterazioni nella dimensione dei pori di filtrazione possano avere un ruolo nelle malattie renali favorendo un aumento nella filtrazione delle proteine plasmatiche.



Articolo tratto da IlSussidiario.net



Piccoli talenti o fenomeni da circo?

La prima volta hanno funzionato bene, la seconda anche meglio, la terza sta funzionando ancora meglio. I “talent bambini”, riservati agli under 15, hanno dato ossigeno a un genere che perde colpi, e la tv ci ha preso gusto. Dopo le due fortunate edizioni di Ti lascio una canzone, condotte da Antonella Clerici, è arrivato Io canto, su Canale 5, affidato a Gerry Scotti, cui sta seguendo la terza edizione di Ti lascio una canzone perché anche la Rai non molla.
Così i concorrenti bambini imperversano sul piccolo schermo. Abbiamo ritrovato alcuni bambini anche nel Torneo delle stelline, la fase riservata ai più piccoli in Ballando con le stelle. Nel panorama sconfortante della nostra tv, questi programmi non sono certo il peggio. I giovanissimi concorrenti sono bravi, a volte più bravi dei loro compagni più grandicelli di Amici. Però non ci vuole niente a trasformare questi bambini in fenomeni da circo, nonostante il clima di festa e la mancanza in questi programmi di quella competitività che sta invece trasformando Amici in un’arena sanguinaria.
Naturalmente ci si esibisce perché si ha qualcosa da raccontare, non per far diventare l’esibizione il vero spettacolo. Come dire che questo bruciare le tappe rischia di nuocere proprio ai diretti interessati, anche perché la voce, soprattutto in questa età, non va stressata. Spingerli sotto i riflettori così precocemente può essere pericoloso per il loro stesso equilibrio. È sempre difficile tornare alla vita normale dopo essere stati sul palcoscenico. Anche per gli adulti, figuriamoci per i bambini.
E poi li separa dalla loro infanzia, perché non è un gioco. Inoltre noi non sappiamo quello che avviene dietro le quinte di questi programmi: chissà quanta frustrazione lasciano queste selezioni. È tutto sbagliato. A questi ragazzini vengono messe in bocca parole da adulto, interpretano canzoni non adatte alla loro età, vengono anche vestiti da adulti. Ci sono esempi in abbondanza, soprattutto nel cinema americano, che dimostrano come i talenti precoci possano andare incontro a grossi problemi.
Anche perché il mondo dello spettacolo è crudele: può buttarti via come un’arancia spremuta...
by PUELLA STULTA
Articolo già pubblicato su Cogitoetvolo.it

sabato 18 dicembre 2010

Chi è l'uomo della Sindone?/4

L’inchiesta del secolo è ancora aperta
 Il voluminoso dossier, avviato con le sorprendenti foto di Secondo Pia, non è stato ancora archiviato. L’esame del C14, che in un primo tempo pareva aver chiuso per sempre l’indagine, è stato pesantemente contestato dai maggiori esperti e scienziati. Per arrivare alla soluzione definitiva dell’enigma dell’Uomo della Sindone occorre un supplemento di indagine. Il nodo da sciogliere è uno soltanto: capire come si siano formate l’immagine e le sue irripetibili caratteristiche.
Baima Bollone, a nome del Centro di sindonologia, non esclude ulteriori esame su nuovi prelievi di tessuto, dopo l’ostensione del Duemila. Nel frattempo spera di ricevere buone notizie dell’aesame in corso sul DNA di tracce di sangue contenute in alcuni campioni.
Le prove scientifiche, fotografiche e storiche, pur non risolvendo il caso, tendono verso l’assoluzione dall’accusa di falso,… perché il fatto non sussiste. La maggioranza degli studiosi è orientata verso  una soluzione posotiva. A questo risultato orientano anche le descrizioni dei Vangeli. Sul lenzuolo si possono “leggere” quasi tutte le torture subite da Gesù nella sua condanna a morte.  In particolare si notano i colpi dei flagelli romani, le ginocchia sbucciate per le cadute, le spalle deformate da un oggetto pesante, la frattura del setto nasale, i segni del casco di spine sulla testa, i polsi trafitti dai chiodi, il costato e il cuore squarciati dalla lancia e centinaia di microferite.

Uno solo può essere Gesù
“Il fatto  che alcuni particolari emergano soltanto dopo l’elaborazione tridimensionale”, precisa Nello Balossino, esperto di informatica, “esclude la possibilità di un qualunque intervento manuale nella formazione delle immagini”.
Con un complicato sistema matematico il professor Bruno Barberis dell’Università di Torino, ha calcolato che su 200 miliardi di persone crocifisse come si vede nella Sindone,uno solo potrebbe avere le medesime caratteristiche della coppia Gesù-Uomo della Sindone. E conclude: “È altissima la probabilità che l’uomo della Sindone sia Gesù di Nazaret”.
Qualunque sia  il verdetto finale, valgono le parole del cardinale di Torino, Giovanni Saldarini: “Due sono i fatti incontrovertibili nei riguardi della Sindone. Su questo lenzuolo, ed è unico, è impressa la figura di un crocifisso, con impronte di sofferenza e di piaghe che corrispondono alla passione di Gesù, secondo i Vangeli. Dal punto di vista scientifico la Sindone costituisce un caso a  tutt’oggi inspiegato. Il credente è del tutto libereo e sereno nella ricerca, mentre l’incredulità potrebbe trovarsi a disagio”.
L’uomo della Sindone, testimone silenzioso di una morte spietata e disumana, sembra riproporre, da Risorto, la domanda fondamentale del Vangelo: “ E voi chi  dite che io sia?”. La risposta, in questo caso, non potrà rimanere in sospeso per sempre.

Articolo tratto da Mondoerre.it

venerdì 17 dicembre 2010

Un po' di risate :D



A scuola la maestra chiede a Giorgietto: “Dimmi un po’, Giorgietto, che cos’è un’edizione integrale?
Giorgietto non ne ha la benché minima idea. Poi ha unn’illuminazione: “È un libro fatto con la crusca, signora maestra!”








Chi è l'uomo della Sindone?/3

Sui luoghi della Sindone un viaggio pieno di misteri

Nessun documento è stato analizzato come il lenzuolo della Sindone. Un trattamento simile non è toccato a personaggi del calibro di Ramses II o di Alessandro Magno. La loro vita, dopo tutto, non va al di là della curiosità storica. A nessuno oggi verrebbe in mente di “perdere la testa” per loro. Per Cristo sì. Per Uno come lui si può anche dare la vita. Si spiega anche cos’ l’enorme interesse per il lenzuolo che avrebbe accolto il suo corpo crocifisso. Sarebbe una prova in più del suo amore per noi.
L’inchiesta sulla Sindone ci ha portato a un passo dalla verità. Manca ancora all’appello la testimonianza deri protagonisti che hanno accompagnato il lenzuolo nel viaggio dalla Palestina a Torino. Li ascolteremo attraverso unaricostruzione delle notizie. Dalle più sicure alle più incerte e antiche.

Il nemico fuoco
La Sindone ha sempre avuto una vita a rischio. Dove non arriva il logorio del tempo possono arrivare la fatalità e la distruzione umana. Una combinazione di questi elementi deve essersi verificata a Torino la notte dell’11 aprile 1997.
Alle 23,35 un violento incendio si sprigionò dalle impalcature che ingabbiavano la cupola del Guarini in restauro trasformandola in una torcia incandescente.
I vigili del fuoco lanciarono fiumi d’acqua sui focolai per tutta la notte e parte del giorno seguente. Gli uomini della squadra 21 a fatica raggiunsero il luogo della Sindone. Passarono minuti drammatici, scanditi dai colpi di mazza del caposquadra che demoliva la custodia antiproiettile. Finalmente, all’1,20 di notte, l’eroico vigile uscì sulla piazza con lo scrigno in spalla. La folla lo applaudì d’istinto, liberando la tensione salita alta come le fiamme.
Ancora una volta la Sindone era salva, dopo aver respinto il fuoco, suo nemico storico.

 Nella città dei Savoia
Il lenzuolo è di casa a Torino dal 9 settembre 1578, per un gesto di cortesia di Emanuele Filiberto verso Carlo Borromeo, cardinale di Milano.Il duca di Savoia, custode della Sindone, l’aveva fatta venire da Chambéry per risparmiare al santo il faticoso viaggio fino in Francia. Il  cardinale si presentò davanti alla Sindone il 7 ottobre dopo un pellegrinaggio a piedi di quattro giorni, sotto la pioggia e forti penitenze.
Il lino rimase alcuni giorni nel castello di Lucento. Fu poi trasferito nella cappella di San Lorenzo. Infine, il 1° giugno 1694, trovò definitiva sistemazione nella cappella costruita da Guarino Guarini, tra l’abside del Duomo e il Palazzo reale. All’inizio la tela fu esposta in pubblico quasi tutti gli anni. Poi, per evitarne il logoramento, solo nelle grandi occasioni.

Un furioso incendio
La Sindone arrivò in possesso dei Savoia nel 1453, per una catena di fatti riconducibili al 1353, ultima data sicura prima di un lungo silenzio. Il 20 febbraio 1353 la presenza del lenzuolo fu segnalata a Lirey, un paesino a 150 chilometri da Parigi.
. Vi era stata portata dal condottiero Goffredo,  il quale la affidò in custodia a un gruppo di monaci.
Accorse una folla immensa a venerarla. Il vescovo, per evitare ogni fanatismo, proibì  di esporla al pubblico finché non ne fosse dimostrata l’autenticità. I monaci contestarono la decisione. Per tutta risposta, il vescovo definì il lenzuolo opera di un pittore ignoto, un falso dunque. Questa accusa è sopravvissuta fino ai nostri giorni.
Come se non bastasse, a rendere ancora più difficile la vita alla Sindone, ci si mise una guerra scoppiata nei dintorni di Lirey. I monaci per salvarla, la affidarono al Conte Umberto de La Roche e a sua moglie Margherita di Charny. Non la riebbero più indietro, nonostante le vivaci proteste. Margherita, per non sentirli più,  passò la tela ad Anna, moglie di Ludovico di Savoia. Era il 22 marzo 1453.
I Savoia, diventati così proprietari e custodi della Sindone, fecero costruire la Sainte-Chapelle a Chambéry, capitale del ducato. Senza sistemi anti-incendio, ovviamente. Sarebbero stati utilissimi la notte tra il 3 e il 4 dicembre 1532, quando le fiamme divorarono la sacrestia e raggiunsero la cassetta con il lenzuolo ripiegato in 458 piccoli rettangoli.
Il disperato intervento di un fabbro e di due frati evitò la distruzione. Una goccia d’argento liquefatto penetrò all’interno della custodia danneggiando il tessuto. Anche l’acqua usata per spegnere le fiamme lasciò degli aloni visibili.
Due anni dopo, le suore di Chambéry eseguirono il restauro dei pezzi bruciacchiati e applicarono una tela sul lenzuolo, per rinforzarne i punti compromessi.
Da Chambéry, La Sindone si è mossa in diverse località francesi e italiane, fino al viaggio definitivo a Torino, capitale dello Stato sabaudo.
Qui finisce la cronologia documentata: Per la ricostruzione della storia precedente ci si affida a frammenti di notizie e scritti. Grazie ad essi si può risalire all’indietro nel tempo dal 1353 qal 340 dopo Cristo. Dal 340 al 33 d.C. è come se un virus avesse cancellato dalla memoria del computer un file quasi quattro secoli. Per quel periodo fanno fede i racconti dei Vangeli.

Prima tappa: Gerusalemme
Riprendiamo il cammino dall’indomani della morte di Cristo. Secondo la tradizione la Sindone sarebbe stata conservata dai discepoli di Gesù per alcuni anni a Gerusalemme. Più tardi, intorno al 340, san Cirillo di Gerusalemme ne faceva cenno come una delle testimonianze della risurrezione di Gesù: “la rupe rossa venata di bianco (la tomba di Gesù) e la Sindone”.
All’inizio del 500 l’imperatore Giustiniano inviò i suoi ambasciatori da Bisanzio a Gerusalemme per misurare la Sindone,con l’intenzione di ricavarne i dati fisici di Gesù.
Per paura di furti, gesti vandalici e profanazioni, il lenzuolo fu tenuto nascosto. Questo favorì la moltiplicazione di dipinti, icone, mosaici e immagini su stoffa del volto del Signore. I pellegrini tornavano dalla Terra Santa con sindoni monde, ossia bianche, poste a contatto con quella autentica.
Per motivi di sicurezza, la Sindone fu trasferita a Edessa, l’attuale Urfa, in Turchia. Il posto era più sicuro di Gerusalemme, dove il violento califfo El Hakem perseguitava i cristiani e profanava i luoghi santi.
Nel 944 la Sindone fu portata a Costantinopoli. Secondo le informazioni del francese Robert de Clary, cronista della quarta crociata, la Sindone veniva presentata ogni venerdì al pubblico. Scomparve durante il saccheggio del 1204.
Per un secolo e mezzo si persero le tracce del lenzuolo. Le notizie sulla sua esistenza riprenderanno nel 1353. Facilmente dopo la presa di Costantinopoli, i crociati spedirono la Sindone in Francia, al vescovo di Besançon. Lo confermerebbero tracce di bruciature lasciate sul lino dall’incendio della cattedrale  cittadina. Era il primo, e non unico, attentato del fuoco al prezioso documento.

Articolo tratto da Mondoerre.it

giovedì 16 dicembre 2010

Chi è l'uomo della Sindone?/2

Il fascino di un’immagine e la sua incredibile storia
Le fotografie di Secondo Pia ebbero l’indiscutibile merito di mettere in movimento la macchina delle indagini. Ma dal punto di vista tecnico non erano il massimo e andavano ripetute alla prima occasione con macchine più perfette.
Nell’aprile del 1902, intanto, l’accademico francese Ybes Delage, partendo proprio dagli scatti di Pia, studiò l’immagine dal punto di vista medico. La trovò anatomicamente perfetta ed “esattissima”. Concluse le ricerche riconoscendo nella figura della Sindonel’impronta di un cadavere, con alcuni dettagli che conducevano a un assassinio, con i segni di flagellazione, di un capo incoronato di spine e di una crocifissione. Proprio come tramandato dalla tradizione.
Escluse assolutamente che si trattasse di un dipinto fatto a mano d’uomo. Avanzò anche un’ipotesi personale sulla “stampigliatura” dell’immagine. Per Delage fu prodotta da un fenomeno fisico-chimico, sotto l’azione dell’aloe e dell’olio d’oliva usati per la sepoltura.
Altri medici certificarono la presenza della circolazione sanguigna, dei muscoli e delle ossa.
  
Foto sempre più perfette
33 anni più tardi arrivò , finalmente, una nuova serie di scatti fotografici. Dietro l’obiettivo di piazzò Giuseppe Enrie. L’esperto professionista, il 3  maggio 1931, alle 22,30, impressionò dodici lastre leggermente più piccole di quelle usate da Pia. I negativi confermavano quanto avevano già fatto intuire le foto di Pia.
Nel 1969 il già prezioso dossier della Sindone venne arricchito da fotografie a colori.Autore dei nuovi clic fu Giovanni Battista Judica Cordiglia il quale replicò le riprese nel1973. In quello stesso anno milioni di persone poterono ammirare le immagini del lenzuolo anche in televisione.
Nel 1978, approfittando di tecnologie più sofisticate, il lenzuolo fu nuovamente posto sotto l’occhio magico degli obiettivi. Al termine di cinque giorni e cinque notti di scatti a raffica, si contarono seimila fotografie. Un autentico primato: nessun altro personaggio al mondo poteva, e può, vantare u  repertorio simile.
  
La Sindone a tre dimensioni
Con un materiale così abbondante, gli esperti non potevano desiderare di meglio per approfondire gli esami di laboratori.
Potenti microscopi elettronici scrutarono il tessuto di lino con ingrandimenti spettacolari da 50 a 3500 volte. I medici legali, in questo modo, riuscirono a contare oltre 600 lesioni su tutta la superficie sul corpo martoriato.
Il computer realizzò, da parte sua, un autentico capolavoro. Gli americani Eric Jumper e John Jackson del centro spaziale di Pasadena in California, elaborarono le prime foto tridimensionali (larghezza, altezza e profondità). Con il loro gigantesco IBM/365 ripulirono prima il volto dalla trama del tessuto riportandola alla sua struttura naturale.
Il risultato fu talmente impressionante che i due esperti scrissero: “Per la prima volta nella storia abbiamo potuto osservare, con sorpresa, l’effetto tridimensionale del volto. Abbiamo cercato di ottenere il medesimo effetto con altre fotografie, ma ogni prova è stata inutile”. Mistero!
L’immagine, di colore verdino, si presentava  nell’insieme meno definita di quelle a due dimensioni (altezza e larghezza), ma decisamente più emozionante. Aveva acquistato rilievo e spessore da sembrare quasi vera. E confermò l’ipotesi che quel lenzuolo avesse realmente avvolto un uomo, visto di fronte e di spalle.
La Sindone conquistava un altro punto di credibilità: nessun’altra fotografia era stata mai in grado di dimostrare la presenza di una persona con un determinato volume.
I primi piani fotografici provarono la presenza dei segni inconfondibili di una esecuzione a morte di croce: chiodi, spine, frustate, ferite, grumi di sangue, gonfiori…Corrispondevano allo spietato repertorio di violenza applicata su Gesù di Nazaret.

 Un autentico "falso"?
Le riprese fotografiche, sempre più dettagliate e perfette, si prestavano per una prima risposta alle curiose teorie sulla formazione dell’immagine. La scienza a questo punto avrebbe potuto dire se la Sindone fosse autentica o no.
Una delle voci più diffuse sosteneva che l’immagine del lenzuolo fosse stata dipinta da un artista medioevale. Le pose fotografiche di Secondo Pia, con l’inversione tra positivo e negativo, offrivano una prima precisa smentita. Quale pittore, si trattasse pure di un Leonardo, sarebbe stato capace di imitare gli effetti dei chiaroscuri fotografici molto secoli prima della  loro scoperta?
Non solo. L’immagine, elaborata al computer, appare come adagiata sulla stoffa in maniera uniforme. Una pittura, al contrario, presenterebbe i colpi di pennello, della spatola o della matita dell’artista. Un computer sarebbe perfino in grado di registrare il modo in cui sono stati usati questi strumenti. Nessuno di questi elementi è stato rintracciato sul tessuto sindonico. Neppure sono state rinvenute tracce di colore. L’ipotesi che la Sindone fosse una pittura, e quindi un falso, cadeva immediatamente.
Un’altra estrosa voce attribuiva la formazione dell’immagine al contatto con unastatua rovente. Anche questa spiegazione perdeva consistenza con l’esame della “luce di Wood”. Questo     esperimento, basato sulla fluorescenza, permette di rilevare i segni di qualsiasi bruciatura o effetto di calore. Le uniche tracce di calore provengono dagli incendi che hanno intaccato la stoffa nel famoso incendio di Chambéry del 1532. L’impronta dell’uomo, al contrario, in  nessun punto presenta segni di bruciature o di emanazione di calore. Dunque…

Il tessuto sul banco degli esperti
Rimaneva da affrontare il problema della datazione ella stoffa. Anche in questo caso andava verificata l’ipotesi che il lenzuolo avesse molti anni in meno di quelli necessari per risalire al tempo di Gesù. Se il dato fosse stato vero, l’inchiesta poteva considerarsi chiusa:la Sindone non aveva nulla da spartire con Gesù.
L’unica strada per saperlo era una sola: indagare sul tipo di stoffa e sui materiali presenti nella rete del tessuto.
Il dubbio sull’età appariva legittimo: come poteva  un tessuto di lino durare duemila anni senza ridursi a una ragnatela di tarli e muffe?
Una risposta ineccepibile  veniva da un esemplare ancora più antico, conservato nelMuseo Egizio di Torino, a due passi dal Duomo in cui è custodita la Sindone. Nella tomba dell’architetto Merit è esposto un lenzuolo ben conservato, realizzato 2000 anni prima di Cristo. Il tessuto di lino, trattato con una particolare attenzione, si difende egregiamente dall’usura del tempo.
Anche sulla tecnica di lavorazione del lino, il materiale in cui era stato intessuto il lenzuolo, si trovarono esempi convincenti. Nel 1985 il Museo di Gerusalemme, stabilì che la pianta era coltivata 6000 anni prima di Cristo nell’Antico Egitto, in Siria e nella zona di Gerico, a una quindicina di chilometri da Gerusalemme. Un esperto di tessuti, Virgilio Timossi, scoprì che ai tempi di Gesù esistevano dei telai e circolavano dei pezzi di stoffa prodotti in Egitto con la medesima tecnica.
Questi confronti fecero collezionare punti a favore dell’autenticità del lenzuolo di Torino. Mancavano, però, prove sicure che quel pezzo di stoffa provenisse davvero dalla Palestina e coincidesse come età con quel venerdì del 33 dopo Cristo, giorno in cui sarebbe stato utilizzato.

A caccia di pollini 
Gli addetti ai lavori orientarono la ricerca su un’altra pista. La striscia di stoffa avrebbe dovuto contenere tracce inconfondibili con le quali ricostruire i fatti.
Nel 1969 il Centro internazionale di Sindonologia invitò a Torino uno dei massimi esperti in materia, il criminologo svizzero Max Frei Sulzer. Lo specialista compì la delicatissima operazione del prelievo soltanto nella notte del 23 novembre 1973. Asportò dei campioni da una limitata zona (240 cmq) con nastri adesivi perfettamente sterili.
Il microscopio individuò minerali, fibre, spore di funghi, muffe e agenti inquinanti. Max Frei concentrò la sua attenzione sullo studio dei pollini (piccoli granuli di forma e dimensioni che variano da pianta a pianta).
Immerse in una gelatina queste minuscole particelle (inferiori a un centesimo di millimetro) e le ingrandì tremila volte con un microscopio a scansione elettronica. Identificò59 specie diverse di pollini.
Riconobbe i pollini delle piante dell’Europa centrale. Il dato confermava il passaggio della Sindone in Francia. Altri sconosciuti in Occidente dovevano provenire da territori molto più lontani.
Lo specialista si mise in viaggio per quattro primavere consecutive nelle terre del Mediterraneo orientale, ripercorrendo all’indietro il viaggio compiuto dal reperto.
Nella zona boschiva del Mar Nero ritrovò una pianta conosciuta anche a Costantinopoli, città in cui la Sindone aveva fatto tappa. Nei dintorni del Bosforo riconobbe altri quattro pollini di piante presenti nel tessuto.
In Turchia scovò il polline di un giglio selvatico che cresceva sulle montagne tra Siria e Mesopotamia. I venti lo avrebbero sospinto da quelle alture verso la città di Edessa, altra tappa del lenzuolo.
Era quasi giunto  a due passi dall’ipotizzata terra di origine della Sindone. Si diresse nella regione del Mar Morto e risalì nella valle del Giordano raccogliendo il polline del deserto. L’estenuante ricerca si concluse sulle antiche mura di Gerusalemme. Raccolse gli ultimi campioni di piante, che fiorivano in aprile, il mesi in cui Cristo celebrò la sua ultima Pasqua.
Il lungo giro a ritroso aveva portato Max Frei sui luoghi della Passione di Cristo fornendo le risposte che cercava. I dati delle sue ricerche dimostrarono che sul lenzuolo si erano depositati granuli di polline esistenti in Palestina, Turchia, Francia e Italia, le località in cui la Sindone aveva fatto sosta.
Nel 1954 esaminando a fondo la superficie del volto, il gesuita americano Francis L. Filas di Chicago, notò  un’ombra strana sull’occhio destro. Era stata lasciata da una moneta,esattamente il lepton  che riproduceva un bastone ricurvo circondato dalle lettere greche UCAI, residuo della scritta Tiberio Cairos (= Tiberio Cesare). Al tempo di quell’imperatore, narrano i Vangeli, nacque Gesù.
Gli studiosi pensarono in un primo tempo all’uso antico di seppellire i morti con delle monete sugli occhi. L’altro occhio, però, ne era sprovvisto. Come mai? La risposta arrivò soltanto nel 1996 per merito di Pier Luigi Baima Bollone titolare di Medicina legale all’Università di Torino e del docente di informatica Nello Balossino sulle lastre di Enrie (1931). Anche sull’occhio sinistro, in posizione leggermente più arretrata rispetto al destro, il computer aveva letto la macchia di un altro lepton del sedicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare (il 29 dopo Cristo).
Un tassello in più si inseriva nel mosaico delle prove a favore dell’autenticità della Sindone.

Vero sangue umano?
Andavano ancora esaminate le macchie di sangue. Si trattava di pittura o di sangue vero? Fu l’interrogativo a cui diede una risposta definitiva Baima Bollone.
La notte dell’8 ottobre 1978 sezionò alcune strisce su cui erano visibili della macchie rossastre. Dopo averle esaminate, concluse che quel sangue era vero e che era mescolato ad aloe e mirra, i profumi e gli oli utilizzati nelle antiche sepolture.
Esami successivi precisarono altre importanti caratteristiche: il sangue apparteneva al gruppo AB, una “qualità” piuttosto rara, in dotazione soltanto del 5% della popolazione mondiale. Nell’ottobre  1984 Baima Bollone sbalordì i partecipanti a un congresso sulla Sindone proiettando due diapositive di un globulo rosso, incapsulato in una miscela di mirra e aloe.

C14: un esame andato male
Le indagini finora avevano prodotto numerosi indizi favorevoli, ma nessuna prova schiacciante. Rimaneva sempre aperto il problema dell’età del lenzuolo. Alcuni ricercatori inglesi e americani richiesero la prova del radiocarbonio, detta del C14, in grado di stabilire la famosa datazione. Le autorità religiose accettarono l’esame nonostante il parere contrario di diversi scienziati italiani e stranieri che ritenevano il metodo inaffidabile.
Il 28 aprile 1988 furono sezionati tre piccoli campioni di tessuto da una striscia  di 1 centimetro pere 7. Vennero spediti ai laboratori dell’Università di Tcson (Stati Uniti), di Oxford (Gran Bretagna) e del Politecnico di Zurigo (Svizzera).
Il 13 ottobre il cardinale di Torino, Anastasio Ballestrero, comunicò il referto del C14ai  giornalisti convocati nel centro salesiano Valdocco (Torino). Lesse questa dichiarazione: “L’intervallo di data calibrata, assegnato al tessuto sindonico con livello di confidenza (=affidabilità) del 95%, è tra il 1260 e il 1390 dopo Cristo”.
Dopo anni di analisi e di mezze verità, queste parole ebbero l’effetto amaro di una sentenza-choc.
Divamparono le polemiche e le reazioni più indignate di coloro che si dissociavano dal metodo e dal risultato. Si parlò di un complotto anticattolico, di una trappola organizzata da chi voleva distruggere la devozione per il prezioso lino.
Come mai i laboratori avevano rifiutato la collaborazione di altri scienziati, mentre avevano accettato David Sox, l’autore della Sindone smascherata, da lui definita come “la più grande contraffazione di tutti i tempi”?
I campioni esaminati  erano stati prelevati da uno dei lembi periferici peggio conservati e contaminati da polvere, sudore, cera e fumo, e vicinissimo a un punto bruciato nell’incendio del 1532. Tutti questi particolari falsavano  l’integrità del campione e le analisi e i risultati.
Fu messo sotto accusa il metodo C14, considerato inadatto per la Sindone e inaffidabile dal suo stesso inventore, l’americano Willard Frank Libby.

Articolo tratto da Mondoerre.it