domenica 24 aprile 2011

Habemus Papam - recensione

SCHEDA
Habemus Papam () - [2011, Italia]
Interessante
Genere: Commedia
Durata: 104'
Regia di: Nanni Moretti
Cast principale: Michel Piccoli, Nanni Moretti, Margherita Buy,Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli,Gianluca Gobbi
Tematiche: fede, Papa, Chiesa, responsabilità, fuga
Target: da 14 anni

Eletto Papa, un anziano cardinale – spaventato dall’enorme compito – cade in depressione.
RECENSIONE
L’inizio fa ben sperare. La salma esposta in San Pietro, appena intravista, di un Papa defunto e i conseguenti funerali in immagini di repertorio (relative alla morte di Giovanni Paolo II, nel 2005), e poi – passando alla finzione – un gruppo di cardinali in processione. Sempre con solennità e rispetto, che introducono a qualcosa di sacro o comunque misterioso. Ma man mano che si procede il misterioso lascia spazio all’enigmatico, e l’accento si sposta sulla garbata ironia, anche se il rispetto non manca mai per quella entità potente e fragile, diffidente e fatta di persone umanissime come la Chiesa (vista però più nell’accezione del suadente ma minaccioso “potere vaticano”).
L’attesissimo Habemus Papam di Nanni Moretti prende le mosse dall’epilogo imprevisto di un Conclave, alla fine del quale viene eletto non uno dei favoriti ma l’anziano cardinale francese Melville (interpretato da Michel Piccoli, che recita in italiano grazie alla lunga consuetudine con il nostro cinema). Attorniato da colleghi cardinali che pregano Dio di non essere scelti, l’eletto al soglio pontificio sembra subito smarrito; come da tradizione, gli viene chiesto se accetta il gravoso compito che Dio gli assegna. E lui, quasi in trance accetta. Salvo crollare poco dopo, ormai vestito da Papa e a due passi dal balcone dove deve mostrarsi alla folla. La proclamazione sta per avvenire, l’“Habemus Papam” pronunciato… Ma, nello sbigottimento generale, il Papa non esce.
Moretti racconta il crollo umano, umanissimo di una persona che si trova in una situazione più grande delle proprie forze. Il Papa/Melville si chiede, sconvolto, dove siano le capacità che Dio vede in lui (“Le cerco e non le trovo"), viene incoraggiato dai cardinali, viene assistito da uno psicanalista. Ma tutto sembra inutile. Il desiderio di scappare, in senso proprio e in senso lato, sembrano prendere il sopravvento. E riemergono desideri del passato, come recitare. Intanto, ai cristiani in attesa si dichiarano pietose bugie per prendere tempo. E cardinali e psicanalista bloccati in Vaticano lo ingannano, il tempo, tra discussioni di varia natura, partite a carte, tornei di pallavolo…
Il regista romano osserva elezione e crollo del Pontefice senza preoccupazioni storiche di alcun tipo: le allusioni all’“amatissimo predecessore” ovvero papa Wojtyla ci sono ma rimangono vaghe, il riferimento al gran rifiuto di Celestino V è escluso esplicitamente da Moretti, che torna a occuparsi di un uomo di Chiesa a 25 anni da La messa è finita. E anche questa volta sembra usare la condizione religiosa come forma estrema ideale per la narrazione, per vedere il personaggio scelto (là il giovane prete da lui interpretato, qui l’anziano Papa spaventato di Michel Piccoli) in una situazione che lo mette in crisi. Per quanto accurato e senza grossi errori (il Vaticano non ha concesso i sacri Palazzi, ma la Cappella Sistina – per quanto inquadrata solo parzialmente – è stata ricostruita a Cinecittà, e altri ambienti sono stati adattati da antichi edifici romani), il film descrive una realtà misteriosa come il Conclave e la Chiesa stessa ma senza cogliere il Mistero. Perché non c’è interesse a mostrarlo. Scelta legittima, perché appunto al narratore è l’umano che interessa e non il divino. La sua attenzione è sull’inadeguatezza umana, di un Papa come di un qualsiasi uomo (psicanalista compreso). Però se in La messa è finita il “gioco” era più lieve e più serio, più profondo, e toccava davvero corde universali (il dolore per la perdita, lo smarrimento per la dolcezza dell’infanzia che si tramutava in amarezza) da poter accettare che la “tonaca” fosse solo un espediente narrativo, qui l’insistenza e il contesto schiacciano comunque l’intenzione di non limitarsi a parlare di un Papa ma dell’uomo. C’è un che di fin troppo premeditato anche nelle scelte sulla carta più interessanti (il rapporto tra il Papa in fuga e una compagnia teatrale che porta in scena Il gabbiano di Cechov). E lo spunto iniziale sembra troppo grande e troppo esile al tempo stesso: succedono tante cose, dopo quel che vi abbiamo raccontato, ma niente di veramente significativo (il torneo di pallavolo, che inizialmente strappa sorrisi, occupa troppo spazio e alla lunga irrita). A parte un finale più prevedibile di quel che si dica.
Le qualità del film stanno negli aspetti più schiettamente cinematografici: nella cura per certi dettagli visivi; nella direzione degli attori (un cast magnifico, anche se sono pochi i nomi popolari: su tutti, oltre a Piccoli (che però ricorda, non poco, l’attore di teatro che interpretava in Ritorno a casa di Manoel De Oliveira), il polacco Jerzy Stuhr e i “cardinali” Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli, Roberto Nobile; in alcune scene surreali, segno stilistico che ricorda il miglior Moretti del passato (i cardinali che si muovono a ritmo di musica…) come anche certe situazioni irresistibilmente comiche (per esempio la guardia svizzera che fa da controfigura); ma ogni tanto la misura si smarrisce, e l’effetto si annacqua. Tra i punti deboli: Margherita Buy ha un ruolo indefinito e Moretti come attore è al tempo stesso marginale (come nel Caimano) e ingombrante; tanto che quel professor Brezzi non sembra il “miglior psicanalista” chiamato in Vaticano, ma il regista stesso che irrompe in quel contesto e non trova di meglio che gigioneggiare (nel torneo di pallavolo) e strizzare d’occhio al suo pubblico. Con battute tra l’autocritico e l’autoelogiativo (“Sono il più bravo? È una condanna, me lo dicono tutti”) che finiscono per essere stranianti e stridenti per i non “morettiani”; e dialoghi solo accennati ai massimi sistemi (il darwinismo, l’inferno) che accrescono la sensazione di banalizzazione. In definitiva: un film interessante, a tratti affascinante, ma non del tutto riuscito. Moretti, in passato, ha fatto molto meglio.

Articolo tratto da Sentieridelcinema.it

sabato 23 aprile 2011

Buona Pasqua!


AUGURI DI UNA PASQUA PIENA DI SERENITA' E AMORE A TUTTI I LETTORI DI PUELLA STULTA

giovedì 21 aprile 2011

Pasqua, il Passaggio

Con la Risurrezione di Gesù cambia tutto.
Il senso della vita, della storia,
del nostro agire quotidiano.
Perché se la morte è vinta,
allora, l’uomo ha una dignità infinita.










Pasqua, sacrificio dell’agnello
Come riferiscono i Vangeli, Gesù è morto crocifisso intorno all’anno 30, a Gerusalemme, all’inizio della Pasqua ebraica. Il fatto che sia morto proprio in occasione di questa festa ha un preciso significato.
Al tempo di Gesù, una volta all’anno gli ebrei si riunivano nel tempio di Gerusalemme, in cui offrivano agnelli in sacrificio per festeggiare la liberazione dei loro antenati dal paese d’Egitto, avvenuta circa milleduecento anni prima. Questo avvenimento è raccontato nel capitolo 12 dell’Esodo: una notte, gli israeliti (che erano schiavi degli egiziani) cosparsero gli stipiti delle loro porte con il sangue degli agnelli che avevano sgozzato. Questo sangue li protesse dalla maledizione divina che colpì i primogeniti degli egiziani. Vedendo questo dramma che colpiva il suo popolo, il faraone autorizzò gli ebrei a lasciare il paese, perché li considerava responsabili di questa maledizione. Gli ebrei fuggirono subito, guidati da Mosè, per procedere verso la terra promessa. Così, in questo avvenimento dell’Antico Testamento, Dio fa passare il suo popolo dalla schiavitù a una nuova libertà.
Gesù, il nuovo Agnello
Come ci riferiscono i Vangeli, Gesù è stato imprigionato a Gerusalemme all’inizio della grande festa di Pasqua. È stato condannato dalle autorità romane e crocifisso. È morto e il terzo giorno è risuscitato. Giovanni lo presenta dunque come l’”Agnello di Dio” (Gv 1,29). Un’espressione decisamente curiosa! Forse l’evangelista si è ispirato al Canto del servo sofferente, il poema nel quale il profeta Isaia descrive il destino di un uomo che offre la propria vita assumendo su di sé le sofferenze e gli errori degli altri e somiglia a “un agnello condotto al macello” (Is 53,7). Giovanni propone certamente anche il parallelismo con gli agnelli offerti in sacrificio al tempio il giorno di Pasqua. Questi agnelli, che ricordavano agli ebrei la liberazione del loro popolo a opera di Dio, erano il simbolo di una protezione contro la morte. Analogamente, Gesù, Agnello di Dio, ci protegge con il suo sangue dalla morte eterna. Gesù è dunque il nuovo Agnello che ha offerto la sua vita liberamente, per amore verso suo Padre e verso il mondo.
Come Dio ha fatto passare il suo popolo dalla schiavitù in Egitto alla terra promessa, così Gesù fa passare il suo popolo dalla morte alla vita. Grazie alla morte e alla Risurrezione di Gesù, l’uomo è liberato dal male, o dal peccato, cioè da una vita senza speranza che lo separa da Dio. Se desidera, ora l’uomo può procedere sulla strada dell’amore, amando Dio e il suo prossimo.
Era necessario che Cristo morisse così?
Gesù, che era venuto ad annunciare la Bella Notizia improntata all’amore, è stato condannato a morte e crocifisso come un malfattore. La sua missione si è dunque rivelata un fallimento? Alcuni discepoli si posero questa domanda subito dopo la morte di Gesù. Infatti, Luca presenta il resoconto del momento in cui due discepoli procedevano da Gerusalemme a Emmaus, un villaggio distante circa 30 km dalla città (Lc 24,13-35). Allora appare loro Gesù risorto per camminare con loro, ma essi non lo riconoscono, perché «i loro occhi erano come accecati». E i due discepoli confidano a quello sconosciuto tutta la loro delusione: com’è possibile che Gesù, «un profeta potente davanti a Dio e agli uomini», sia finito così? Ma «il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?». Gesù spiega che la morte del loro maestro ha un senso, che egli ha obbedito alla necessità imperiosa di andare fino in fondo alla sua missione, che consisteva nel rivelare agli uomini la gloria di Dio. Di sera, una volta arrivati a Emmaus, i due discepoli invitano l’uomo a condividere la cena con loro. E, appena benedice il pane, riconoscono Gesù. Pieni di meraviglia, tornano allora a Gerusalemme per annunciare la Bella Notizia agli altri discepoli.
L’Ultima Cena di Gesù
In che modo questi due pellegrini hanno potuto riconoscere Gesù? Di fatto, questo brano allude a un altro avvenimento: l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. Ricordiamo infatti che Gesù fu arrestato uno o due giorni prima della Pasqua ebraica, nell’anno 30 o 31. Gli ebrei si preparavano a celebrare con una cena questa grande festa (cf p. 262). Giovedì sera, Gesù, sapendo che stava per essere arrestato, condivise il pane e il vino con i suoi discepoli. L’unica differenza rispetto al pasto degli ebrei fu l’assenza dell’agnello. Dopo aver spezzato e benedetto il pane, Gesù disse: «Questo è il mio corpo, che viene offerto per voi. Fate questo in memoria di me». Poi offrì ai discepoli il calice del vino pronunciando queste parole: «Questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue offerto per voi» (Lc 22,19-20). Gesù annunciò così il senso della sua morte sulla croce: è una Pasqua, il passaggio dalla morte alla vita.
Cristo è risorto
«Gesù è risorto», afferma il Vangelo. Questo è il cuore della fede cristiana. Ma chi sono i primi testimoni ad aver incontrato Gesù dopo la sua Risurrezione?
Intervista a François Brossier, esperto dei Vangeli
Che cosa è accaduto il terzo giorno dopo la morte di Gesù? Che cosa hanno visto le donne? E i discepoli?
La prima immagine che ci viene data della Risurrezione è quella del vuoto. I quattro Vangeli lo dicono espressamente: i primi testimoni che si recano alla tomba, il primo giorno della settimana, non trovano il corpo di Gesù. Evidentemente la pietra che chiudeva l’ingresso del sepolcro è stata spostata e all’interno rimangono solo i lini in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Ma chi sono questi testimoni? I quattro Vangeli affermano che Maria di Magdala, o Maria Maddalena, si è recata molto presto al sepolcro, prima del sorgere del sole. Secondo gli evangelisti Matteo, Marco e Luca, era accompagnata da una o due altre donne. Giovanni all’inizio del suo resoconto afferma che Maria Maddalena si è recata al sepolcro molto presto, ma, quando scopre che la tomba è vuota, va ad avvertire due discepoli, Pietro e “l’altro discepolo, il prediletto di Gesù” (Gv 20,2), i quali vi si precipitano. Il discepolo che accompagna Pietro arriva prima e “si china a guardare i lini giacenti a terra”, ma non entra nel sepolcro. Pietro vi entra e vede i lini e il sudario che copriva la testa, da una parte, piegato, ma non dice nulla su ciò che prova. Finalmente l’altro discepolo decide di entrare e allora “vide e credette” (Gv 20,8). Che cosa vede? Che il segno della tomba vuota testimonia della Risurrezione di Gesù.
Il figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-15) e Lazzaro (Gv 11,1-44), quando Gesù li risuscita, riprendono la loro vita tra gli uomini?
Sì. Quando Gesù le risuscita, queste persone tornano in vita e riprendono la loro esistenza terrena. Questi due miracoli somigliano a una rinascita, o “reviviscenza”. Il caso di Gesù è diverso, perché, dopo la sua Risurrezione, va dal Padre. È infatti venuto a mostrare agli uomini che dopo la morte rinasceranno a una vita nuova presso Dio.
Con quali parole viene designata la Risurrezione nei primi scritti cristiani?
La Risurrezione è designata in tre modi. Si dice che Gesù è stato “destato” e “risuscitato” dai morti. E, per mostrare che il Risorto non ricomincia la sua antica vita di uomo, ma sale verso Dio, si usa il termine “esaltato” o “glorificato”. Così, negli Atti degli Apostoli si può leggere: «Dio ha manifestato il glorioso potere di Gesù, suo servo» (At 3,13). E san Paolo afferma: «Dio lo ha innalzato sopra tutte le cose e gli ha dato il nome più grande» (Fil 2,9). Poiché credono in Gesù risorto, i cristiani lo chiamano “Signore”, un nome finora riservato a Dio nella religione ebraica. Riconoscono dunque che Gesù esercita la sovranità di Dio stesso. È questo il significato della formula: «È seduto alla destra di Dio».
Che cosa significa “risorto”?
Gesù è passato a un’altra vita: ora è in cielo presso il Padre ed è vivo tra noi. Per aiutarci a comprendere meglio la Risurrezione, ci viene data una nuova immagine: quella delle apparizioni di Gesù. Infatti, Gesù appare a Maria Maddalena nella tomba e lei non sa chi Egli sia. Inizialmente lo scambia per il giardiniere e gli chiede dove abbia messo il corpo di Gesù. Nel momento in cui l’uomo la chiama per nome: «Maria!», ella riconosce Gesù, nel cuore della relazione personale che aveva con lui (Gv 20,11-18). Lo stesso giorno, Cristo si manifesta a due altri discepoli che vanno a piedi da Gerusalemme a Emmaus (Lc 24,13-35; Lc 16,12), i quali, però, lo riconoscono solo alla fine del percorso, quando, durante la cena, benedice il pane. Secondo questi due testi, il Risorto può essere riconosciuto solo con gli occhi della fede. Non si giunge a riconoscerlo subito: ancora oggi, come accadde ai discepoli di Emmaus, riconosciamo Cristo risorto nella meditazione delle Scritture e nella frazione del pane (eucaristia) e con l’aiuto dello Spirito.
Che cosa garantisce ai primi testimoni che Colui che vedono sia proprio Gesù vivo?
Tommaso, uno dei discepoli, si è posto questa domanda molto prima di noi. Quando i suoi amici affermano che hanno visto il Risorto la sera del primo giorno della settimana, egli rifiuta di credere. Ed esige prove concrete: «Se non vedo il segno dei chiodi nelle sue mani, se non tocco col dito il segno dei chiodi e se non tocco con la mia mano il suo fianco, io non crederò» (Gv 20,24-29). Una settimana dopo, Gesù si manifesta di nuovo ai suoi discepoli e si rivolge così a Tommaso: «Metti qui il dito e guarda le mani; accosta la mano e tocca il mio fianco. Non essere incredulo, ma credente!». Subito Tommaso riconosce Gesù. E il Signore aggiunge: «Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che hanno creduto senza aver visto!» (Gv 20,27-29).
È necessario credere nella Risurrezione per essere cristiani?
Sì. Anche se oggi molti cristiani affermano che non ci credono… Vediamo però che cosa ci dice san Paolo: «E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore» (1Cor 15,14). Un’intera vita, però, non ci basta per scoprire questo mistero.
Gesù è vivo in ogni persona, ma può essere nel cuore degli assassini, dei ladri…?
Sebbene possa sembrare strano, Gesù è vivo in ogni persona, anche in chi compie il male ed è dominato da pulsioni distruttive, o dal peccato. Solo Dio può giudicare. Noi sappiamo però che è un vivo di misericordia e di perdono. Siamo dunque invitati a posare su ogni peccatore (e anche su di noi) uno sguardo lucido, ma che non chiude l’uomo nel suo errore. Come dice san Giovanni in una delle sue lettere: «Non avremo più paura davanti a Dio. Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,19-20).
Risorgerò dopo la mia morte?
La Risurrezione di Gesù ci invita a credere che rinasceremo a una vita nuova nella nostra condizione di uomini e donne. Così, attraverso la potenza dello spirito di Dio, il nostro corpo diventerà spirito e sarà incorruttibile o indistruttibile. Mentre l’involucro del nostro corpo terreno andrà in polvere, il nostro corpo spirituale o “glorioso” conserverà tutti i segni di ciò che avremo vissuto in questa vita, ma non sarà più dominato da necessità naturali come bere, mangiare, dormire, né del peccato, inteso come il bisogno di dominare gli altri, di mentire… È quella che la tradizione cristiana chiama “Risurrezione della carne”. Tutto il nostro essere sarà orientato verso l’amore.
Quale prova abbiamo della Risurrezione di Cristo?
Nessuna. La Risurrezione non è un avvenimento che si possa verificare storicamente. È però attestata dalla testimonianza dei primi discepoli, come ci riferiscono i quattro Vangeli.
Allora, come possiamo credere a un avvenimento che non è certo?
La Risurrezione è un fatto certo, ma lo è dal punto di vista della fede, non della scienza. Nessuno è obbligato a credere, ma dobbiamo sapere che gli apostoli e i cristiani dei primi secoli sono stati spesso perseguitati a causa della loro fede. Molti di loro sono morti martiri per amore di Cristo. Se avessero considerato la Risurrezione come una vaga ipotesi filosofica, non sarebbero giunti a tanto. Possiamo fondare la nostra fede sulla loro testimonianza.
Come posso incontrare Gesù risorto oggi?
Possiamo incontrarlo leggendo i rileggendo i Vangeli, ad esempio i passi che vanno dalla passione alla Risurrezione. Questi testi portano a comprendere che il Risorto è vivo tra noi. In altri termini, possiamo trovarlo nel nostro cuore e parlargli come a un amico, che ci ama davvero e al quale possiamo confidare ogni gioia e ogni dolore, perché è passato attraverso l’esperienza della sofferenza e della morte. Può accompagnarci nella nostra vita di ogni giorno in modo discreto e molto reale, se lo ascoltiamo a poco a poco nel silenzio. Ma impariamo a conoscerlo anche tramite l’incontro con gli altri, perché Gesù è all’opera oggi nell’umanità, in tutti gli uomini e le donne che danno la vita per costruire un mondo più giusto, un mondo migliore.



Articolo tratto da Dimensioni Nuove

Vivere in società

Vivere in società è un nostro destino e un nostro compito. È un destino perché siamo nati in società e la società ci accompagnerà fino alla fine dei nostri giorni. Uscire dalla nostra società e vivere per conto nostro può sembrarci a volte un’idea  promettente, quando ci scoraggiano la pesantezza e le difficoltà dei rapporti con gli altri. Ma è un’utopia, poiché la società ci afferra in mille modi e in ogni momento. Non importa se l’uomo e la donna siano per natura animali sociali, come dicevano gli antichi, oppure si uniscano tra loro per reciproca utilità, come dicono i moderni.
Sappiamo comunque con certezza che non c’è vita individuale fuori della società e che dappertutto al mondo le esistenze degli uomini e delle donne si uniscono durevolmente le une alle altre, formando società più o meno vaste e più o meno giuste, con legami più o meno intensi e costruttivi. Nessuno di noi potrà allora farsi estraneo alla società in cui gli è toccato di vivere e ai suoi problemi, né potrà dire: non mi riguarda. La fuga in un mondo puramente individuale può essere l’illusione di un momento, non la realtà della nostra vita.
Vivere in società è anche un nostro compito, un compito attivo e cosciente. Tra tutti gli esseri viventi che formano società, solo agli uomini spetta il privilegio, che è anche un terribile fardello, della libertà. Essi sono (o possono rendersi) liberi di fronte alla società del loro tempo: possono difenderla e consolidarla, come fanno i conservatori; combattersi per trasformarla fino a metterla sottosopra, come fanno i riformatori e i rivoluzionari; perfino limitarsi a subirla apaticamente, come fanno gli ignavi. La vita sociale dipende quindi anche da quanto gli uomini avranno o non avranno fatto per migliorarla, renderla più giusta, più umana, più degna di essere vissuta.
Poiché nessuno può rendersi estraneo alla società di cui è parte, su tutti grava la responsabilità dell’uso che ciascuno avrà fatto della sua libertà.
È una responsabilità difficile da sopportare per gli uomini di questo inizio del terzo millennio. I mezzi di cui dispongono possono consentire grandi successi nel miglioramento delle società in cui vivono, ma possono portare, al contrario, verso la riduzione o l’eliminazione delle possibilità stesse della vita. Le capacità umane, nel bene e nel male, non sono mai state tanto grandi: i rischi della libertà mai così terribili. L’uomo che si è fatto così straordinariamente potente deve prendere straordinariamente sul serio il suo compito di vivere in società.
E noi sapremo prenderci le nostre responsabilità e vivere con la consapevolezza che la libertà è un dono che non possiamo sprecare o usare male?
Articolo già pubblicato su Cogitoetvolo.it
by PUELLA STULTA