domenica 28 novembre 2010

Mare nostro, mare ostile?

Il mediterraneo deve il suo nome alla collocazione geografica che lo costituiva cuore del mondo abitato, “mare tra le terre”, supporto ai commerci di Fenici, Egizi, Greci, Cartaginesi, Iberi e Romani. Mare nostrum, lo chiamavano questi ultimi, una volta diventati i dominatori di quelle acque che più che dividere univano terre, culture, religioni…
Mare che insegnava i confini del mondo conosciuto, mare “abbracciato” dall’Impero romano che sembrava estendersi a macchia d’olio proprio a partire dalle sponde bagnate da quelle acque.
Sulle sponde orientali di quel mare si sono pure affacciate le tre grandi religioni monoteistiche e da lì sono salpati in tempi e con modalità diversi anche gli annunciatori di una “Parola” considerata espressione della volontà di Dio per tutti gli uomini.
Mediterraneo, mare emblematico ancora oggi che ha perso molta della sua importanza strategica: simbolo contraddittorio di tanti aspetti della società sorta proprio da quella “culla di civiltà” che il Mediterraneo è stato. Da un lato, il brulicare di turisti vacanzieri lungo le coste della Turchia alla Spagna, dal Marocco all’Egitto: gente in vacanza festosa, immersa in un cieco consumismo e sovente in un’ostentazione di ricchezze e potere. Dall’altro, l’approdare su alcune di quelle stesse coste di migliaia di esseri umani, vivi o morti, poveri “che corrono dove c’è il pane”; esuli e profughi in fuga dagli orrori della guerra della violenza cieca, dell’angoscia delle prigioni, della chiusura di ogni orizzonte di speranza; migliaia di persone che noi definiamo sovente solo con aggettivi, negando loro perfino la dignità del nome: uomini, donne e bambini che vivono terribili drammi di morte per fame e per sete, alla ricerca di una terra in cui finalmente essere accolti e in cui avere semplicemente una vita degna di questo nome.
E ancora, Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, che ora assiste allo scatenarsi delle barbarie, che “culla” sulle sue onde navi da guerra cariche di strumenti di morte, che osserva muto il suo cielo terso solcato da aerei da combattimento e da fiumi di incendi.
Sulle coste orientali di questo mare si  leva ancora una volta la bestia infernale della guerra che non riconosce più civili né bambini: Israele e i suoi abitanti sono vittime della distruzione e della violenza cieca dei bombardamenti, fiumare di persone sono private di tutto, vivono rintanati nei rifugi per sfuggire alla morte che piove con missili.
Una guerra atroce che inquina il mare ancor più di quanto non faccia l’”oro nero”, sempre più oro di prezzo e sempre più nero di sangue, una guerra cui nessuno vuole mettere fine prima di averla vinta, ignorando che ogni guerra non ha mai vincitori, ma solo sconfitti.
Sì, il Mediterraneo, come ogni altro mare, non ha un’anima, può essere veicolo e ricettacolo di vita come di morte, può assistere a  gesti di brutalità inaudita come di ammirevole abnegazione, così come può cullarsi nella nostra colpevole indifferenza. Ma il Mediterraneo, come ogni mare, come ogni spazio “tra le terre”, riceve l’anima che gli diamo noi uomini e donne che ne abitiamo le sponde e ne usiamo le acque: sta a noi decidere quale anima gli conferiamo, sta a noi “sanarne” le onde rendendole acque di pace e di accoglienza, sta a noi fare del Mare nostrum, del “nostro” mare, il mare di tutti, la culla di una civiltà in cui ogni essere umano che viene al mondo è libero di amare e di essere amato, una civiltà in cui la vita è più forte della morte.
by PUELLA STULTA
Articolo già pubblicato su cogitoetvolo.it

sabato 20 novembre 2010

Ebook in Italia, eppur si muove

Quasi seicento anni fa, l’introduzione della stampa a caratteri mobili in Europa segnava la fine dell’epoca del libro manoscritto. Tra la fine del XX secolo e questi primi decenni del 2000, con la rapida e apparentemente inarrestabile ascesa di computer e internet, il nuovo oggetto rivoluzionario nel campo librario è rappresentata dalla pubblicazione in formato digitale: l’e-book.
Negli Stati Uniti, il libro elettronico è già da tempo sulla cresta dell’onda, con incrementi del 183% durante il 2010 nelle vendite degli appositi lettori (e-reader, disponibili in varie piattaforme tra cui spiccano l’iPad prodotto dalla Apple e il Kindle, sviluppato dalla libreria online Amazon) e un aumento del numero medio di libri letti rispetto ai fedeli del formato cartaceo. Come a dire che la tecnologia non va per forza a scapito della cultura, malgrado tante previsioni di tono apocalittico.
L’impatto dell’e-book sul mercato italiano (un mercato in cui la percentuale di lettori che supera la media di tre libri all’anno si aggira intorno al 14%) è finora stato modesto, più a causa di una ancora scarsa diffusione degli e-reader, strategie poco chiare da parte dei grandi gruppi editoriali e ancora meno chiare politiche di prezzo che della mancanza di domanda: Edigita, piattaforma distributrice cui hanno preso parte i gruppi RCS, Messaggerie Italiane e Feltrinelli, è rimasta inerte per mesi. L’e-bookstore di Telecom, frutto dell’accordo con Mondadori e presentato all’ultima Buchmesse di Francoforte, ha a sua volta sofferto di problemi tecnici: la scelta del formato ePub con sistema di protezione DRM Adobe ha infatti reso impossibile, per questioni di compatibilità, leggere gli e-book su iPad e Kindle. Questo ha scatenato critiche feroci da parte di possessori di e-reader non compatibili e addetti ai lavori, fermo restando che anche questa protezione è facilmente violabile e dunque di dubbia efficacia come antidoto alla distribuzione pirata. A ciò si aggiungono i prezzi ancora elevati, spesso uguali se non addirittura superiori a quelli dei volumi cartacei.
Nel frattempo, fanno capolino anche iniziative di segno più positivo: Giunti ha recentemente pubblicato il nuovo libro per ragazzi della famosa scrittrice Susanna Tamaro, Il cerchio magico, contemporaneamente in formato cartaceo e digitale, quest’ultimo offerto in omaggio a chi compra il libro tradizionale oppure acquistabile tramite la piattaforma Simplicissimus, interamente privo di DRM. La carta e il lettore elettronico, insomma, sono tutt’altro che in guerra.

Articolo tratto da MessIN.it

martedì 16 novembre 2010

ELOGIO DELLA NOIA

La scuola è una noia. I grandi sono una noia. Lo studio è una noia. Ma anche questa festa è una noia. Lo aveva già detto con immaginifica potenza Baudelaire: “Ma in mezzo ai mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi, uno ve n’è, più laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo. È la Noia!”
La noia. Il nemico mortale dei miei studenti, il nemico mortale delle nostre giornate. La noia che ti prende sia quando lavori sia quando sei in vacanza. Anzi a volte ci si annoia di più in vacanza che al lavoro. La noia non dipende da quello che si fa, ma è una condizione del cuore. Non è altro che un preziosissimo indicatore: non stai vivendo tutta la vita che c’è da vivere, la tua vita non è all’altezza della vita vera. Manca qualcosa. Ci sono due possibili soluzioni.
La prima facile, ma incerta: cercare subito un’emozione forte che mi tiri fuori dalla noia. Compro qualcosa di nuovo, lavoro di più, mi sballo… Ma finito l’effetto “adrenalina” ritorno alla noia di prima, divenuta però più profonda, perché sono caduto da più in alto.
Seconda soluzione: mi fermo e mi chiedo cosa mi manca? Cosa manca alla mia vita per essere all’altezza di sé stessa? Di cosa ho nostalgia?
La risposta è: manca la meraviglia. La meraviglia sta in ciò che è nuovo, ma non in senso cronologico: l’ultima cosa che è uscita (l’ultimo film, l’ultimo paio di scarpe… insomma il nuovo della pubblicità), che è sinonimo di “meno vecchio”.
Il vero “nuovo” invece è ciò che sa darmi sempre di più di quello che è. E dove si trova? Un po’ nella realtà, un po’ nel cuore che sa accoglierla: un amico vero, un bel romanzo, un panorama, il quadro di un artista, un progetto da realizzare, Dio… e chi più ne ha più ne metta. E cosa sa essere sempre nuovo ogni volta che lo interroghi? Ciò che ha profondità di spirito. Ci annoiamo perchè ci accontentiamo delle superfici, ma la vita non si inganna. Occorre scovare quel qualcosa di meraviglioso che si nasconde in ogni situazione, ma questo richiede impegno e attenzione.
Non sempre abbiamo questo coraggio, e per questo costringiamo noi e i nostri figli a riempire il tempo come una specie di stomaco bulimico. Abbiamo paura di annoiarci, abbiamo paura che si annoino. Ma proprio la noia ci costringe a cercare quell’equilibrio che manca.
Lasciamo che i nostri ragazzi si annoino, non c’è niente di male. La noia li porterà a contatto con sé stessi rapidamente e forse sarà l’inizio di una ricerca del vero nuovo, che “le cose più recenti” non riescono mai a soddisfare.
Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino, 5 novembre 2010
Articolo tratto da profduepuntozero.it

domenica 14 novembre 2010

L'amico perduto

Ci siamo conosciuti nel tempo. Inizialmente, eravamo l’uno antipatico all’altro. Ma, essendo una prima impressione, ed obbligati a stare comunque assieme ogni qualvolta ci si riuniva in gruppo, tu ed io abbiamo iniziato a conoscerci, ad andare oltre…
E’ iniziata una relazione… re-lato deriva dal greco, φερω, ovvero portare… riportare qualcosa all’altro. Ridargli qualcosa di sé. Renderlo più uomo. Aiutarlo a crescere, cambiare, cadere, imparare. Forse l’amicizia è anche queste cose, ma non si può rendere con le parole.
Ma io avevo trovato un tesoro: un nuovo amico. 
Ti ho confidato me stesso. Ti ho mostrato il mio cuore, anche con le sue ferite. Ti ho scritto lettere di parole per riempirti di me, e colmare il vuoto che c’era nel nostro passato. Volevo tu mi conoscessi, sinceramente, senza apparenze, senza maschere, senza facciata. Ti ho permesso di entrare nel mio cuore, nei miei desideri e nei miei sogni. Mi son fidato.
E tu hai iniziato ad aprire il tuo. Quanto mi colpiva… Sì, mi colpiva conoscere qualcuno così diverso da me e scoprire di volergli bene proprio nelle diversità, e non in ciò che ci accomunava, che pur c’era! Il tuo essere così diverso da me nei gusti, nelle posizioni, nei punti di vista, nei ragionamenti, nei modi d’affrontare piccoli problemi quotidiani, tutto per me era occasione per mettermi in discussione e crescere, e, ancor più, occasione per imparare ad amare chi agisce, pensa e ama diversamente da me. Tutto questo di te, mi ha affascinato.
Forse troppo. Sicuramente troppo. Mi sono illuso d’esserti amico, e di avere un amico in più.
Quanti silenzi, quante verità non dette si sono nascoste nel tempo. Mentre io continuavo a fidarmi, ad aprirmi, ad essere più tuo, perché ti lasciavo penetrare nel mistero di me… Pensavo fossimo in due a crescere, ma erravo. Erravo in una terra che sperava troppo, in te. Non credevo tu fossi differente, anzi: da subito avevo conosciuto le nostre divergenze. Ma era questo che ci arricchiva nell’amicizia.
Non sapevo che il tradimento era dietro l’angolo. Anche questo ci ha resi diversi, forse troppo, anche perché chi, tra noi, sbagliò, potesse chiedere scusa. Perché neanche questo hai fatto.
Un vero amico, sa chiedere perdono. Sa ammettere il proprio errore, sa dare la faccia e andare dalla persona cui ha fatto un torto, dirle che gli dispiace, chiedere cosa possa fare per rimediare la situazione. Questo un vero amico. Non colui che mai sbaglia, ma colui che dialoga, e si permette di sbagliare perché sa che nell’affetto, gli errori sono compresi, così come lo è il perdono. Dato e ricevuto, perché sia tu che io ne abbiamo commessi di sbagli.
Eppure non hai voluto. Non hai risposto neanche alla mia mano tesa, anche se la ragione – che non è mai da una parte sola – era più dalla mia. Io mi son fatto avanti, ho fatto il primo passo, con pazienza… ho fatto il secondo, con sofferenza… il terzo, deluso dalla rabbia. Non sapevo avrei sofferto ancora di più.
E’ successo così, la fine di un’amicizia. Non volevo altro che volerti bene. Non avevo fini, se non il desiderio della tua felicità.
Perché non me lo hai permesso?
Ed io, ancora ti voglio bene.
Articolo tratto da cogitoetvolo.it

mercoledì 10 novembre 2010

Susan Boyle: “Mia madre rifiutò l’aborto. Non dovevo nascere”

Gravidanza a rischio: Susan Boyle non doveva nascere. I medici che seguivano la madre della futura star della canzone le consigliarono l’aborto. La signora Boyle aveva già avuto 8 figli. Ma la donna, cattolica devota, rifiutò l’aborto. Oggi il mondo della musica avrebbe perso una star, ma quello che più conta è che fu salvaguardata una vita umana.
Lo racconta la stessa Susan Boyle nella sua autobiografia autobiografia 'The Woman I Was Born To Be' appena pubblicata in Inghilterra. "I dottori mi guardarono in modo sprezzante” scrive “dal momento che sospettavano avessi avuto danni celebrali a causa di una mancata ossigenazione del cervello. Così dissero a mia madre: 'Doveva darci ascolto. Adesso dovrà accettare il fatto che Susan non diventerà mai niente di buono”. Niente di buono? Nove milioni di dischi venduti non saranno un evento che cambia la storia del mondo, ma sicuramente Susan Boyle qualcosa di buono l’ha fatto.
"Sono sicura che i dottori avessero le loro migliori intenzioni ma penso che non dovessero dire quelle cose dal momento che nessuno può prevedere il futuro. Quello che i medici non sapevano è che io sono una sorta di combattente e che durante tutta la mia vita ho cercato di dimostrare loro che avevano torto”.
La notizia è stata riportata oggi sulle pagine del quotidiano Avvenire. Recentemente, durante la visita del Papa in Scozia, Susan Boyle ha potuto coronare il sogno della sua vita: cantare davanti a un pontefice.
Articolo tratto da IlSussidiario.net

mercoledì 3 novembre 2010

QUANDO LE MAGIE SI FANNO SENZA BACCHETTA: UN FUTURO ATTRAVERSO I MURI?

« Una locomotiva a vapore scarlatta era ferma lungo un binario gremito di gente. Un cartello alla testa del treno diceva “Espresso per Hogwarts, ore 11″. Harry si guardò indietro e, là dove prima c’era il tornello, vide un arco in ferro battuto, con su scritto “Binario Nove e Tre Quarti”. Ce l’aveva fatta. »(J.K.Rowling,Harry Potter e la pietra filosofale)
Harry Potter potrebbe non essere più l’unico ragazzino ad oltrepassare porte invisibili: e’ questa la conclusione alla quale sono giunti un team di esperti scienziati che sostengono di aver scoperto una teoria per realizzare dei passaggi “inivisibili”proprio come avviene nel film, alterando il percorso delle onde luminose. I “passaggi segreti”e invisibili sono una delle principali caratteristiche dell’avvincente saga di Harry Potter, che ha riscosso successo in ogni parte del mondo. Chi non ricorda il famosissimo passaggio invisibile che conduceva al binario 9 ¾, al quale gli studenti accedevano attraverso un muro posto tra i, realmente esistenti, binari 9 e 10, reso invisibile agli occhi dei “babbani” (persone umane).
E se un giorno ci trovassimo ad oltrepassare anche noi i muri?
La ricerca è stata condotta da quattro scienziati della University of Science and Technology di Hong Kong e della Fudan University a Shanghai, e i risultati sono stati pubblicatii sul New Journal of Physics, col il seguente titolo:”Una semplice via verso un passaggio elettromagnetico regolabile”. Lo studio, partendo dai principi delle trasformazioni ottiche, parla di” un varco in grado di bloccare le onde elettromagnetiche, ma al tempo stesso di permettere il passaggio ai corpi”.
“Un passaggio –continuano- che si credeva essere possibile solo nella fantascienza!”.
Huanyang Chen, uno dei quattro ricercatori che ha firmato la ricerca, spiega che quando una persona si troverà di fronte a questo passaggio, avrà la stessa sensazione di essere davanti a uno specchio.
Si tratterebbe quindi di un illusione ottica.
Questo tipo di scoperta,specificano gli scienziati,è puramente a livello teorico in quanto a livello pratico non sono mai stati realizzati prototipi simili. Questa innovazione sarebbe utilissima soprattutto in campo militare.
Come sempre la realtà supera i limiti della fantasia: chissà se un giorno dovremmo far fronte anche al problema dell’abusivismo dei passaggi segreti.

Articolo tratto da MessIn.it

ATTORI SUL PALCOSCENICO DELLA VITA

“Uno, nessuno, centomila”. Il titolo di una delle più conosciute opere di Luigi Pirandello fotografa in modo perfetto la capacità di “nascondere” la propria personalità dietro una o più maschere. Ogni giorno, quasi senza accorgercene, ne indossiamo una secondo le situazioni o le persone che si hanno davanti.
 Ognuna di queste maschere viene plasmata dalle abitudini prese anno dopo anno, dalle convinzioni che ci si è fatte vivendo con gli altri, dalle “parti” che siamo chiamati a svolgere, da come ci vedono gli altri, dall’educazione ricevuta.  Sono tanti altri input che vanno a formare quello che la psicologia definisce l’”Io”, conscio e inconscio, che si è formato in base alle circostanze familiari, alle esperienze fatte, alla cultura acquisita.
In questa rappresentazione che mescola la realtà con la finzione, indossare una maschera acquista significati diversi e non  necessariamente negativi. Al ragazzo timido, il chiudersi in se stesso serve come una difesa, quasi fosse una tartaruga che si rifugia nel suo “guscio” ai primi segni di pericolo. La smorfiosa si comporta da antipatica perché forse non trova il “linguaggio” giusto per “parlare” con le amiche.
Ma non ci si maschera solo nel relazionarsi direttamente con gli altri. Oggi c’è anche la “maschera tecnologica”. Dietro lo schermo di un computer, quasi fosse uno scudo difensivo, tanti ragazzi, camuffati dietro un nickname, interpretano un ruolo diverso dal solito chattando. È la stessa parte che, in fondo, molti “recitano” nell’inviare messaggini o foto con il telefonino: evitano di confrontarsi direttamente con gli altri e trasmettono un’”immagine” talvolta diversa di sé.
Perché si “indossano” delle maschere nella vita di tutti i giorni?
È così difficile essere se stessi?
Cosa ci spaventa della realtà da non saperla talvolta affrontare?
by PUELLA STULTA
Articolo già pubblicato su cogitoetvolo.it